il bevitore

 

  Qui in città dicono che sono un ubriacone, ma non è affatto vero, credetemi. L’ubriacone è, come posso spiegarmi, colui che è schiavo dell’alcol, l’ubriacone è quello che subisce l’alcol.

 Ebbene, io, è vero, sono un bevitore, ma non di siffatta specie. Io non sono alla mercè dell’alcol; l’alcol è in realtà al servizio della mia volontà.

 Io conosco quella sottile linea di demarcazione, quel confine spesso ritenuto così labile e incerto, che separa la saggia coscienza del bevitore dalla triste incoscienza dell’ubriacone. Io conosco quella linea, la conosco benissimo, quel confine mi è estremamente familiare. Io riesco a percepire la realtà, la consistenza, di quello stato di pace serena e cosciente che precede l’ebbrezza.

Il mio rapporto con l’alcol è divenuto ormai un’arte, una disciplina mentale e fisica continuamente rafforzata ed affinata dall’esperienza.

Io riesco a dosare con una precisione estrema il quantitativo che mi necessita per raggiungere pienamente quello stato che non è ancora ebbrezza, ma lucida leggerezza dell’animo, quella leggerezza che ti solleva dalla meschinità, dalla stupidità, che ti fa vincere la forza di gravità degli oggetti, delle cose, dei fatti, dei pensieri banali, della quotidianità dell’esistenza, che ti apre la mente e il cuore.

Ma bisogna stare attenti, molto attenti, questo stato, quest’isola ideale, felice, è la piccola zona franca tra la coscienza vigile del saggio e l’incoscienza del folle.

Molti sconsiderati si avventurano lungo questo stretto sentiero incautamente, sventatamente, e finiscono per oltrepassare quella zona senza accorgersene. Oltrepassarla significa perdere il controllo di sé, significa essere capaci di compiere qualsiasi gesto inconsulto, anche il più grandemente sconsiderato, significa perdersi.

 

Scoprii la mia vocazione piuttosto precocemente. I miei genitori, per punirmi di una qualche mia grave mancanza, presero l’insensata risoluzione di rinchiudermi in un ripostiglio, dove tra una cospicua varietà di oggetti, dimorava una serena famiglia di bottiglie di ottimo vino bianco, perfettamente allineate, lucide, trasparenti. Sicuramente io ero un predestinato, ma, come posso dire, fu allora che sentii la voce, la chiamata.

Coloro che hanno praticato un’esistenza di santità, hanno probabilmente vissuto e ben conoscono quell’attimo nella loro vita in cui una voce, un’immagine, non si sa se esterna o interiore, illumina loro improvvisamente l’anima. Ebbene, io, che evidentemente non ero destinato ad una vita di santità, ebbi egualmente quell’attimo, l’illuminazione. Una luce chiarissima, un bagliore, mi attraversò la mente. Esse erano là, perfette, lucide, allineate.

Allora ero ancora molto inesperto, la mia iniziazione non fu del tutto priva di sgradevoli conseguenze. Dapprima un semplice stordimento, piacevole, debbo riconoscere, poi un inaspettato e strano effetto di scoordinamento tra i vari pezzi del mio corpo che si protrasse per un lasso di tempo terribilmente lungo. Devo confessare, ahimè, che la susseguente serie di effetti collaterali, stava quasi per far vacillare quella mia folgorante vocazione. Per un certo periodo infatti evitai perfino di guardare quelle bottiglie, ma fu soltanto questione di tempo, la mia strada era già segnata, non potei più sottrarmi all’abbraccio della mia nuova fede.