la stazione

Era il 30 settembre del 1996. Quel giorno dovevo aver dormito per un bel pezzo su quel treno. Quando mi risvegliai mi resi subito conto di aver abbondantemente superato la stazione cui ero diretto. Infatti notai subito lo scorrere dal finestrino di un paesaggio che mi era del tutto nuovo; del mio abituale percorso invece conoscevo ogni minimo particolare, erano anni che lo ripetevo due volte al giorno, andata e ritorno.

 

Guardai l’orologio, le cinque del pomeriggio, dovevo essere andato abbastanza oltre la mia destinazione. Era davvero una grandissima seccatura.

 

Il vagone era completamente vuoto, sentii che il treno cominciava a rallentare e decisi di scendere alla stazione che si stava avvicinando per poi attenderne un altro che mi riportasse indietro. Qualche attimo dopo si arrestò del tutto e scesi senza alcun indugio. Era una piccolissima stazione di campagna, con un solo binario fiancheggiato da un breve e scalcinato marciapiede sul quale non si scorgeva anima viva.

 

Il treno ripartì silenziosamente e mi ritrovai solo. Sulla facciata del piccolo e decrepito edificio della stazione una vecchia tabella mezza arrugginita portava il nome di una località che mi risultava completamente sconosciuta. Doveva trattarsi di una stazione così piccola e insignificante della quale non avevo mai supposto l’esistenza. Mi diressi verso la costruzione per chiedere informazioni ai ferrovieri. Raggiunsi con pochi passi la porta a vetri della Direzione, una porta vecchissima. I vetri erano lesionati in più parti ed erano talmente vecchi e sporchi che non permettevano di scorgere praticamente nulla dietro di essi.

 

Bussai con una certa energia e i vetri scricchiolarono sinistramente, senza che alcuna risposta venisse dall’interno. Bussai ancora, poi spinsi la porta che si aprì a fatica cigolando e riuscii a dare uno sguardo dentro.

Nell’angusto locale, avvolti da una cupa penombra, non c’erano altro che un paio di vecchie sedie, un tavolino di legno consumato e uno scaffale su cui giacevano certamente da moltissimo tempo vecchi fascicoli ingialliti. Sul pavimento di piastrelle rossicce e sconnesse, qualche vecchio attrezzo abbandonato. Tutto era completamente ricoperto da uno spesso strato di polvere e avvolto da fitte ragnatele.

 

Del tutto sconcertato richiusi la porta.

Guardai ancora verso i binari, ma era evidente che non vi era nessuna traccia del personale, la stazione era molto probabilmente abbandonata da tempo, ma visto che il treno vi si era fermato, doveva essere ancora utilizzata. La cosa mi sembrò comunque molto strana. Avrei dovuto provare a uscire per chiedere informazioni a qualche passante. Superato un piccolo e decrepito cancelletto di legno mi ritrovai in un modestissimo piazzale sommariamente asfaltato.

 

Naturalmente, come temevo, il piazzale era completamente deserto, oltre c’era solo la campagna e uno stretto viale dritto che si allontanava dalla stazione.

La campagna era strana o meglio, molto diversa da quella che ero abituato a vedere, una distesa piatta, brulla e completamente priva di alberi.

La cosa mi meravigliò non poco, non mi era mai capitato di notare un tale paesaggio, non soltanto nella zona in cui vivevo ma nemmeno nelle regioni circostanti.

 

Si scorgevano in lontananza ogni tanto nuvole di polvere sollevate dal vento e niente altro, né costruzioni, né veicoli né persone.

Feci qualche passo lungo il vialetto ciottoloso, ma non potevo allontanarmi molto, per non perdere la possibilità di sentire l’avvicinarsi di qualche treno. Purtroppo non si udiva assolutamente nulla.

 

Era una disgrazia davvero incredibile essere finito in quel posto sperduto, chissà quanto avrei dovuto aspettare prima di poter ripartire e senza nemmeno tra l’altro immaginare dove fossi capitato. Guardai ancora l’orologio. Le cinque. Ancora? Aveva semplicemente deciso di fermarsi. Era strano, ma anche il vecchio orologio all’esterno della stazione segnava le cinque, anch’esso fermo, ma chissà da quanti anni.

 

Il cielo che mi sovrastava era completamente sereno e azzurro di un azzurro carico. Qualche grosso uccello volava pigramente, ma molto in alto.

Ritornai verso la stazione e stavolta imboccai quella che doveva essere la sala d’aspetto, la porta si aprì faticosamente emettendo un penoso gemito.

Naturalmente anche questo locale era in completo stato di abbandono: addossata a una parete una grossa e robusta panca di legno ne costituiva l’unico arredo.

 

Prima o poi si fermerà un treno, pensai, cercando di convincermi che la mia sosta avrebbe poi anche potuto essere non così lunga. Avevo tante cose da fare in serata, ma sarei arrivato sicuramente molto tardi.

 

Mi sedetti sulla panca, tirai fuori dalla tasca un sigaro, lo accesi e cominciai ad aspirarlo con calma, producendo lente, pesanti e dense volute di fumo.

Passarono diverse ore senza che accadesse assolutamente nulla, nessuna traccia né di treni in arrivo né di niente altro, finii per addormentarmi.

 

Il mio sonno sullo scomodo giaciglio fu angosciosamente agitato, non ricordo quanto tempo restai disteso a dormire, ma quando mi risvegliai era di nuovo giorno. Naturalmente nessun treno era passato né era accaduto altro. Decisi di ritornare verso la Direzione della stazione. Rientrato nel locale cercai di guardare meglio in giro e notai in un angolo, sul pavimento, una catasta di vecchi quotidiani ricoperti dalla polvere e in buona parte logori, rovinati dall’umidità.

 

Presi a esaminarli. Nonostante sembrassero molto vecchi erano in realtà dell’anno, e infatti molti riportavano notizie che già conoscevo. Non mi soffermai molto su di essi, finché non ebbi tra le mani l’ultima copia, la copia del primo ottobre 1996, di cui era rimasta, quasi sbriciolata, solo parte della prima pagina. Il mio sguardo fu subito attirato dal titolo su più colonne che dava notizia di uno spaventoso incidente ferroviario.

 

Lessi avidamente le prime righe dell’articolo e sentii il sangue raggelarmisi nelle vene, si trattava proprio del mio treno, anche gli orari coincidevano; cercai di leggere altri particolari, ma la carta mi si polverizzò letteralmente tra le mani, e non riuscii a sapere altro. Che cos’era? Uno scherzo di cattivo gusto, un’allucinazione, un incubo spaventoso?

 

Non ebbi il coraggio di restare in quel locale, uscii dalla stazione e mi ritrovai nel piazzale esterno, dove tutto era rimasto immutato, il cielo era sempre azzurro e il sole alto; davanti a me il vialetto dritto. Cosa dovevo fare? Restare mi sembrava inutile, avrei dovuto cercare qualcuno. Imboccai il viale e mi avviai.